STORIA DI UNA VITA

Amarcord (le memorie di un bresciano in esilio) di Bruno Ugolini (Gavroche)

 Ecco qui le prime puntate dei testi ospitati da BRESCIA BLOB, il sito del giornalista Renato Rovetta (oggi abbandonato o quasi per una malattia del collega).  Possono ricordarsi dell'autore di queste memorie  i bresciani più anziani. Bruno Ugolini è un giornalista, oggi collaboratore d’alcuni periodici e dell’Unità, dove ha lavorato per oltre trenta anni, occupandosi quasi esclusivamente di problemi sociali, sindacali. A Brescia, nei primi anni sessanta era stato corrispondente dell’Unità nonché  direttore del settimanale bresciano  "La Verità".   

RITORNO ALLA VECCHIA CITTà

Quella sera, nel silenzio generale, sono scoppiato a ridere. Una risata breve soffocata, isterica. Qualcuno mi ha strattonato, altri mi hanno zittito. Ero nella penombra di  una seriosa sala cinematografica romana. Stavo assistendo ad una delle circa diciassette (o quattordici?)  puntate di  Heimat.  Un mastodontico e affascinante racconto tedesco. Il protagonista, ad un certo punto, è interrogato dai compaesani: qual è la città più bella che hai visto nel tuo lunghissimo girovagare per il mondo? E lui risponde: Brescia.   E’ a quel punto che sono scoppiato a ridere, incompreso dagli astanti. Che cosa volevo dire? Ero esploso in un ridicolo, inconsulto, immotivato  moto dell’animo. Non voleva essere una smentita a quelle parole. Solo che, improvvisamente, ero stato come catapultato nel ricordo di una città che da molti anni non vedevo più. Con i Ronchi, la Maddalena, i laghi, le valli, l’infanzia, l’adolescenza, gli amori, le compagnie, la scoperta della politica.  E’ lo stesso stato d’animo, un misto di nostalgie un po’ melense, che mi ha preso scoprendo il  sito di bresciablob e poi i libri del prode amico Renato Rovetta, infaticabile e appassionato narratore e custode di memorie di ieri e d’oggi.

Certo, amarcord, mi ricordo. E mi piacerebbe fondare un’associazione d’esuli, bresciani sparsi nel mondo in qualche modo fedeli a lei, la Leonessa. Perché a Roma magari c’è la famiglia piemontese, il circolo dei calabresi, l’angolo dei veneti, ma non c’è la casa dei bresciani. Forse perché siamo gente schiva, gente rude e ci sentiamo più cittadini del mondo che incasellati in una provincia…

Ho lasciato Brescia nel 1965. Sono trascorsi trentasette anni. C’era ancora, mi pare, il sindaco Bruno Boni, un nome che mi era caro, nonostante le distanze politiche, malgrado quel ritratto poco ossequioso, fatto per il Bruttanome di Giannetto Valzelli (un maestro di penna così come lo era stato Bruno Marini). Mi era caro, il supersindaco,  forse perché era stato scolaro di mio padre Gherardo Ugolini, scrittore per l’infanzia presso <La Scuola Editrice> ed era voluto venire ai funerali del vecchio, nel 1960, alla Badia.

Qualche anno fa sono passato per Brescia, proveniente da Mantova, in automobile. Per una visita lampo a mia sorella. Mi sono perso. Proprio così. Giunto alla Volta Bresciana, non mi sono più raccapezzato.    Dove era mai quella contrada? E la mia scuola elementare? E le strade tra il villaggio Littorio, poi Leonessa, dove ero nato e il villaggio Ferrari? Perché erano diventate così intricate?

C’era, c’è una città nuova, irriconoscibile rispetto  a quegli anni sessanta. Vedo che Renato, ha svelato, in uno dei suoi libri, la mia identità di allora, il mio nome di piuma: Gavroche. Era un’eredità dell’infanzia, trascorsa a leggere libri come <I Miserabili>. Mi ero immedesimato in quel ragazzo, Gavroche, appunto, che stava tra le barricate e gli assalitori. Io stavo tra i comunisti (Guido Frassine, Bruno Sclavo, Italo Nicoletto, Loris e Franco Abbiati, Angelo Negroni, Lucchini, Romano, Adelio Terraroli, Ilario Tabarri)  e la massima potenza economico ecclesiastica del luogo, la Casa Editrice La Scuola (Vittorino Chizzolini, Agosti, padre del mio amico regista Silvano, la Scotti, Lino Monchieri, Mario Comassi, Mario Cattaneo, don Tedeschi, don Zambelli, l’amministratore Lombardi…).

Scrivevo i corsivoni per la Pradva locale (<La Verità>) nel cesso della redazione cattolica, per non farmi scoprire. Mi sentivo una specie di primula rossa. Intento a fare un santificato  lavoro redazionale per <La Madre>, <Scuola Italiana Moderna>, <Carta penna e calamaio>, <Cantiere>, per poi rifugiarmi  a colpire le ipocrite incongruenze di tanta parte del mondo cattolico, nel segreto di quello pseudonimo, Gavroche. Ero approdato in quei candidi uffici semi ecclesiastici, prima come correttore di bozze, poi come redattore-impaginatore, al seguito di mio padre, per tanti anni scrittore e collaboratore dell’Editrice. Un mondo di santi, dall’aria immacolata. Li avevo abbandonati alla morte di mio padre, senza più impacci, nel 1960. Avevo percorso a piedi la strada tra la sede de <La Scuola> e la sede del Pci, in un ex convento di suore in via Gramsci, munito solo di un tipometro, una specie di centimetro di metallo che serviva in quell’epoca senza computer per misurare i caratteri tipografici. Alle mie spalle avevo lasciato la signora Scotti in  lacrime. Avevano tentato di tutto per dissuadermi. Anche un colloquio con un prelato della Pace che mi aveva ricordato le prediche di Padre Bevilacqua contro <quelli che si attaccano alle mammelle della chiesa>,  ricordandomi che certo sulla nave della comunità ecclesiale  potevano esserci anche ladri, peccatori, ingiusti, ma non per questo bisognava abbandonare la tolda.

Io, però ero convinto d’imbarcarmi sul transatlantico del futuro, con un equipaggio d’uomini forti e puri, i comunisti di Frassine e Sclavo, quelli che avrebbero costruito un mondo di fratelli e compagni. Ora posso dire che c’era in quel Gavroche una qualche illusione giovanile… Anche quella nuova nave aveva i suoi topi, le sue falle, le sue ingiustizie, le sue meschinità Anche per questo poco tempo dopo approdai all’Unità di Milano e poi di Roma. Nel frattempo, com’è noto, il comunismo è crollato. Non sono crollate le ingiustizie del mondo.

I COMUNISTI CHIUSI IN CONVENTO

Era curiosa la sede dei comunisti bresciani in quei primi anni Sessanta. Un tempo aveva ospitato, se non ricordo male, un convento di suore. C’erano grandi saloni e affreschi. Non c’era però il riscaldamento. Quando di buon mattino raggiungevo la stanza destinata alla redazione de <La Verità>, dopo aver attraversato la lunga fila di pensionati, con le loro pratiche, presso la porta dell’ufficio abitato dall’onorevole Italo Nicoletto, ero accolto da nuvole di fumo. Era il buon Guido Frassine che cercava di accendere una stufetta. Lui ed io rappresentavamo l’intero corpo redazionale, ma anche un po’ i tipografi e gli spedizionieri. Avevamo in mano l’intero ciclo produttivo. Frassine era un operaio autodidatta, più colto di me. Un maestro.

La mia prima uscita da giornalista militante fu a Lumezzane. La <Voce del Popolo>, guidata da un terribile Monsignor Pasini, leggendario sacerdote, circondato da un’aureola di presunte mondanità, aveva montato una specie di scandalo sulle foibe dei partigiani. Il settimanale dei comunisti bresciani, con quella testata che non era altro (unico esempio in Italia) che la traduzione della sovietica <Pradva>, aveva deciso di rispondere con un’inchiesta sui livelli di sfruttamento in Valle Trompia. Ed eccomi con tanto di taccuino nelle case-officina, sempre accompagnato da funzionari del Pci, spesso accolto con la richiesta di mostrare la tessera di partito. Un’aria di non spenta clandestinità.

Erano, in fondo, gli aspetti simpatici di quel mondo. Meno simpatiche erano le riunioni dell'apparato nel gran salone della Federazione, quasi sempre dedicate alla scelta di candidati. Ho capito così, rapidamente, i tratti della geografia politica interna, più basata sui ruoli delle grandi famiglie locali, d’antica tradizione comunista, che su sofisticate differenziazioni politiche. Certo alcuni tra i notabili erano più portati al conservatorismo, allo sguardo sul passato, altri più affascinati dall’innovazione e dal futuro. Anche allora….

Io spesso e volentieri mi annoiavo. Erano meglio le riunioni del sommo Comitato Federale. Anche perché qui la polemica, specie tra sindacalisti e funzionari federali era più aperta e spesso violenta. Anche allora…

Qualche volte ero chiamato in causa anch’io. Come quando qualcuno quasi mi accusò di essere una spia del Vaticano, provenendo da quella Casa Editrice La Scuola, patria della battaglia per l’insegnamento della religione nelle scuole, all’inizio del secolo. Come quando venne Rinaldo Scheda a corrugare la fronte, alzando la voce, per chiedere la sostituzione dell’allora segretario della Fiom, un omone di Genova che si chiamava Morchio. Era accusato di rapporti troppo idilliaci con la Fim-Cisl di Franco Castrezzati, un cattolico che faceva comizi a mitraglia parlando come uno di <Lotta Continua>. Io già allora ero innamorato degli operai, dei metalmeccanici in particolare, dei sindacati, della <classe>. Perciò lo stesso Morchio il giorno dopo aveva chiamato al telefono rimproverandomi per non essere intervenuto a sua difesa...

All’Unità mi portarono Tortorella e Luca Pavolini, un giorno che erano venuti a Brescia, proprio il giorno dell’assassinio di Kennedy. Mi avevano convinto a trasferirmi a Milano.  Era nel frattempo stato eletto segretario della Federazione Adelio Terraroli, dopo quel Bruno Sclavo che mi aveva accolto e che avrei rivisto anni dopo a Roma. Terraroli era un uomo sanguigno di gran simpatia e spregiudicatezza, molto amato e molto odiato, già ingraiano, così dicevano, poi amendoliano. Ricordo di lui un intervista al <Giorno> in cui esclamava: <Breznev? Non è mio zio!>. Io la lessi con orrore. Non avevo capito nulla.

 Adelio tentava un serio sforzo di rinnovamento dell’apparato con l’innesto di giovani: Barbieri, Binetti, altri.  Ma molti lo accusavano di voler solo conquistare l’ambito seggio di parlamentare bresciano.

Fu una fase divertente, anche se per me spesso difficoltosa. Come quando m’incaricarono di rappresentare il Pci in una specie di società della cultura. Gli incontri avvenivano in una saletta dell’Hotel Vittoria e c’erano il professor Mario Cassa, il professor Renzo Baldo, il professor Berardi. L’ordine del giorno, in un clima carbonaro, sempre quello: la puntigliosa volontà di organizzare un maxidibattito che non andava mai in porto, poiché si voleva avere contemporaneamente presenti nella stessa serata uomini di grosso calabro come Amendola, Ingrao, Lombardi, Moro, La Malfa e non so chi altro. Sarebbe stato un avvenimento epocale…

Una volta mi elessero delegato ad un congresso nazionale a Roma. Eravamo nella stessa stanza io, Terraroli e Piero, uno dei fratelli Borghini, il più allegro.  Una sera io e Piero avevamo bevuto un po’ e ci producemmo in una specie di danza imitando i granchi, con il pretesto di una celebre piece teatrale sartiana…

La direzione de <La Verità>, alla quale ero stato presto nominato, mi dava spesso grattacapi. Una volta fui quasi processato, con l’intervento di un commissario da Roma. Avevo scritto in prima pagina una sorta di difesa del <mostro di Tremosine>, un ragazzo processato per aver ammazzato padre e madre e sorellina. Lo aveva fatto perché gli avevano negato l’acquisto di una motocicletta. Ed io avevo gettato la colpa sulla società….

C’era, per fortuna, la corrispondenza dell’Unità. Qui mi divertivo davvero. Ero un corrispondente a tutti gli effetti.  Ogni giorno, spesso in compagnia di Die Nalli, un simpatico e un po’ indolente tabaccaio (con negozio sotto i portici) che collaborava al <Giornale di Brescia> e di una splendida fanciulla che rappresentava l’Agenzia Italia, facevamo il giro di carabinieri e questura.  Poi a casa, a telefonare all’ospedale civile e financo ai cinema, per riempire i tamburini degli spettacoli pubblicati nella pagina della Lombardia. Ero amico di molti carabinieri e di molti poliziotti. Un carabiniere di Piazza Tebaldo Brusato, il maresciallo Casella, una volta mi pregò di dargli qualche volantino, qualche documento: servivano per il suo domestico spionaggio. Lo riempii di cartacce. Era il ridicolo spionaggio segreto all’Italiana. Un altro maresciallo della questura di via Musei un'altra volta mi accompagnò a Milano per deporre contro un balordo, tal Ermanno Buzzi, poi implicato nella strage di piazza della Loggia.  Mi aveva denunciato per un titolo dell’Unità <Accoltellato uno dei balletti verdi>, a lui dedicato.  Quella dei balletti verdi fu l’occasione che mi permise di conoscere gli <inviati>: si erano precipitati a Brescia per seguire le sorti di quel preteso scandalo, lo sfruttamento sessuale di ragazzini a favore di signori altolocati. C’era Clemente Azzini, Salvatore Conoscente, Anna Maria Rodari e altri.  Tirarono in ballo persino l’arcivescovado e Mike Buongiorno. La Federazione del Pci fece un manifesto, naturalmente tutto verde, con il titolo: <Fuori i nomi!>.

I BOLSCEVICHI PER MODO DI DIRE

C’erano una volta i comunisti. Anche a Brescia. Erano un’isolata minoranza. Nessuno avrebbe pensato, allora, negli anni Sessanta, che un giorno un Paolo Corsini sarebbe diventato sindaco. C’era Bruno Boni, immarcescibile. C’era la Democrazia cristiana onnipotente, con le grandi famiglie cattoliche, i Montini e i Bazoli, la Banca San Paolo, il Credito Agrario. Un certo Sam Quilleri liberale, proprietario di cinema, faceva il liberale… C’era Ubaldo Mutti che dirigeva una rivista di centrosinistra, diremmo oggi. Era <L’eco di Brescia>, mi pare. Un giorno pubblicò un servizio sugli <amendoliani>, o qualcosa del genere, e c’era anche la mia foto. Ero orgoglioso di quella fama. Certo Amendola mi piaceva, ma preferivo Ingrao. Forse capivo poco i dissidi dell’epoca. Ero un ragazzotto un po’ naif, ex chierichetto, ex boy scout, dagli studi incerti, prima al Classico, poi alle Magistrali. Con un’esperienza sola, di lavoro prima come correttore di bozze, poi come redattore-impaginatore alla casa Editrice La Scuola. Seguivo riviste con strani nomi: <Carta penna e calamaio>, <Cantiere>, <La madre>, <Scuola italiana moderna>. Avevo una vera unica passione: la scrittura e la lettura. Accompagnata da un interesse acuto per il mondo del lavoro e per i diseredati in generale. Non a caso avevo cominciato a divorare volumi a sei anni. La mia <formazione> era avvenuta con <I Miserabili>, i <Promessi sposi>, i <Fratelli Karamazov>.  

 La sera partivamo. C’era una specie di tabella di marcia che c’era consegnata, con l’indicazioni dei paesi da visitare, i compagni da contattare, le riunioni da tenere. Stavamo in quattro o cinque pigiati sopra ogni macchina. Il conducente, al ritorno, prelevava tutti, paese dopo paese. Ricordo un uomo abbastanza voluminoso, palermitano. Guidava e cantava, mentre scendevamo verso Botticino, Bedizzole, eccetera. La sua canzone preferita era <Sciuri, sciuri, sciuri tutto l’anno> ed io, preso dalla foga dell’epoca, pensavo si trattasse di un canto rivoluzionario dedicato ai <signori>. Tragico equivoco con i <fiori>, scoperto solo più tardi. Spesso capitava di arrivare alla destinazione fissata e di rimanere un paio d’ore in un’osteria col tristissimo segretario di sezione, unico ad aver risposto all’appello, davanti ad un bicchiere di vino. Compito del funzionario – io in quel caso – era di rincuorarlo e incitarlo al tesseramento. Una fatica improba. Capitava anche di dover tenere un comizio, per la festa dell’Unità. E allora la presentazione dal palco avveniva più meno in questi termini: <Il compagno Nicoletto non è potuto venire, purtroppo abbiamo con noi il compagno Ugolini>. E quel <purtroppo> non era offensivo, era una nota di dolore, di rammarico.

 Erano meglio le riunioni in città, soprattutto nelle due Sezioni aristocratiche, la Gheda e la Caprani, sempre affollate e ricche d’iniziative, spesso in polemica con quelli della Federazione, considerati un po’ dei burocrati. Qui s’incontravano i capi operai, assai autorevoli nel Pci, rispettati da tutti. C’era Giori dell’Atb, c’erano due dell’Om-Fiat che avevano un   cognome che finiva in <elli> tipo Maccarinelli.   Io per l’Om curavo anche un giornalino, insieme con un altro operaio, Boghetta. La testata era: <I lavoratori della Om>.  Questo Boghetta era un accanito pescatore e un giorno trascinò me e Frassine sul lago d’Idro a pescare. Una noiosa giornata d’attese, con la lenza in mano, senza alcuna preda. Quel lago però mi era caro, con quella sua aria triste e dimessa.   Oltretutto mi ricordava una vacanza con mio padre, reduce dal campo di concentramento in Germania, nel 1944-1945.

Una volta alla sezione Gheda inciampai in una specie d’incidente politico. Mi chiamarono per una commemorazione della Festa della donna ed io non sapendo che dire cercai di cavarmela leggendo una poesia di Bertold Brecht dedicata ad un’infanticida. Non ebbe molto successo. Mi guardavano sgomenti. Era un’epoca in cui le problematiche femminili cominciavano appena ad affacciarsi. Nei saloni della Federazione s’incontravano poche donne. Forse non c’erano funzionarie. Le uniche che ricordo erano Dolores Abbiati e Piera Bonetti.

 Tra i funzionari maschi rammento Lucchini, simpatico, con una faccia da gattone e, infatti, si diceva di lui che accalappiasse gatti per poi cucinarli a dovere.  E poi Dalola e il cassiere gardesano Regali. L’unica discussione politica rimasta nella memoria fu quella svolta in una commissione congressuale.  Mi sono rimasti impressi, non so perché, gli interventi di Romano che poi passò nel ramo cooperativo.    Era l’unico che difendeva con ostinazione la necessità di un rapporto stretto con i socialisti. Una discussione che poi ho risentito mille e mille volte. Come quella tra innovatori e conservatori, fino a giungere a D’Alema e Cofferati.

 Chi erano, dunque, questi comunisti, rappresentanti di una specie che sembra quasi estinta?  Ho avuto modo l’altro giorno di discuterne con un’amica, prendendo a pretesto l’ultimo libro di Barbara Spinelli dedicato al Novecento e alla necessità di non concedere alcun <bonus> ai bolscevichi accusati di nefandezze come i nazisti. Anche i bolscevichi italiani, sì anche i bolscevichi italiani, diceva la signora. Anche quelli di Brescia. Colpevoli, aggiungeva lei, di aver recepito le teorie di Wladimir Lenin. Teorie che, in definitiva, portavano alla violenza, al terrore, ai gulag, alle foibe. Io devo confessare d’avere avuto un balzo d’indignazione. I comunisti bresciani no! Mi era venuto in mente che io magari, in quegli anni, ero andato a scovare una copia lisa di <Stato e rivoluzione>. Ma l’avevo leggiucchiata di nascosto. Se l’avessi portata ai Lucchini, ai Dalola, ai Regali, ai Frassine, ai Boghetta e altri, mi avrebbero riso in faccia. Oppure denunciato ai probiviri….

 

uN PASSATO dA BOY SCOUT

Come sono potuto diventare comunista nella cattolicissima Brescia? E’ una domanda che ogni tanto qualcuno mi fa e non so dare risposte convincenti. Io non ho certo avuto un’educazione marxista leninista. Semmai il contrario. La mia adolescenza è stata costellata da esperienze interne a quella che era chiamata la comunità ecclesiale. Ho fatto il chierichetto e ho ancora presente l’immagine di me che, vestito di una tunica bianca con righe rosse, munito di una sottile mazza d’argento, guidavo la schiera dei <tarcisiani>, i nipotini dei martiri cattolici, all’entrata del duomo di Brescia, la notte di Natale. Alle spalle mie e degli altri giovinetti immacolati, c’era il vescovo e la folla dei fedeli. Un’anima pia, insomma. E poi l’altra esperienza, tra i boy scout dell’Asci,  esploratore di  Prima Classe, <Aquila d’argento>. Con quella parola d’ordine in dialetto bresciano <Na olta scout, semper scout> e le dita incrociate. Non ricordo molto bene i nomi dei miei capi scout. Ho la vaga rimembranza di un Paolo Bertoni e di un Mina.  Grande scuola di vita, in ogni modo, e non solo per l’insegnamento a fare i nodi e ad usare l’alfabeto Morse, o per i primi approcci alla cucina da campo e all’organizzazione del campeggio. Una scuola di socialità, d’educazione civica,  con le allegre escursioni sulla Maddalena. Non mi vergogno di quei giorni, come non mi vergogno certo di essere diventato comunista, oggi etichetta un po’ fuori moda.

Qual è stata la molla? Devo dire che la mia non era propria una famiglia di  salde tradizioni cattoliche. Mio nonno, Ugolino Ugolini, originario di Macerata,  era professore di scienze naturali a Padova.  La leggenda vuole che il ministro Crispi gli muovesse la terribile accusa d’essere un positivista e lo facesse trasferire a Brescia. Qui – così mi hanno sempre raccontato – ogni primo venerdì  del mese teneva davanti ad un gruppetto d’attoniti bresciani delle <prediche anticlericali>. Peccato non si siano conservati i testi. Non solo: era socialista ed era diventato anche assessore ai Tributi in Comune. Nonno Ugolino aveva sofferto molto, per la repentina scomparsa della moglie, una giovinetta ebrea padovana, Elisa Revere. Tra la prima consorte e la seconda (Santina, una ragazza veneta, figlia di contadini di Strà e che gli aveva fatto da governante), era stato padre di un sacco di figli: Gherardo (mio padre), Augusto (poi generale, medaglia d’oro nella guerra d’Africa), Giulio, Max, Lisetta, Davide (violinista a Berlino). Altri due (Bruno e Ugolino) erano morti nella prima guerra mondiale, conquistando medaglie sul campo.

Non  era però una stirpe contrassegnata dalla coerenza. Lo dimostra il fatto che quello stesso predicatore anticlericale e socialista, uomo energico, volitivo, autoritario,  ad un certo punto fu preso da una passione forsennata per la religione. Il professor Ugolini, abitava in Via Gabriele Rosa 3. Era una stupenda casa, presa in affitto. Sorgeva (sorge tuttora, occupata dai legittimi proprietari, la famiglia Zaniboni) alle pendici del Cidneo, proprio sotto la simpatica trattoria brescianromanesca <Il Pincio>. Qui c’era il suo studio e c’era un grande giardino dove aveva coltivato alberi da frutta e piante da studio, come una gigantesca pianta carnivora.  Qui riceveva i suoi amici (ricordo un nome: il professor Giacomelli)  e una volta persino Gabriele d’Annunzio, il Divino Gabriele proveniente da Gardone Riviera. Gli aveva lasciato una dedica su una propria foto. Campeggiava in cucina e diceva: <A Ugolino Ugolini, studioso delle piante che vegetando, sèntono e comprèndono>. Io ho trascorso parte della mia infanzia in quella casa indimenticabile, scrutando ogni giorno quella dedica con quegli accenti marcati sul <vegetàndo>, <sèntono> e <comprèndono>.

Proprio in quella stanze si era compiuta la metamorfosi e il vecchio studioso aveva dimenticato il passato, imparato il catechismo, morendo benedetto. Era stato deposto nella bara non solo col crocefisso, ma anche con la camicia nera. Così è la vita. Era, credo, il 1940. Io fui condotto ai funerali e mi fecero indossare la divisa di figlio della Lupa. Un po’ di vergogna, stavolta sì, per quel travestimento, la confesso.

Incoerenza anche in papà Gherardo. Anche lui insegnante,  socialista, collaboratore de <l’Avanti!>. Peccati di gioventù, scomparsi con l’ingresso come scrittore per l’infanzia nella Casa Editrice La Scuola, vero e proprio covo dell’offensiva cattolica nel Paese. Era  partita da qui, con Giuseppe Tovini, la battaglia per l’insegnamento della religione nelle scuole. Anche Gherardo, però era un cattolico per modo di dire. Diceva di sé d’essere, non ho mai capito perché, un <giansenista>. Era, semmai, un vero peccatore, assai sensibile al fascino femminile, presto separato da mia madre (rampolla di una famiglia di commercianti bresciani, i Bonfiglio, proprietari di una gioielleria in piazza della Loggia).  Era un uomo  assai mite, al contrario di mia madre. Un poeta, un romantico, fattosi spedire, anche per fuggire dalle energie autoritarie di mia madre, nel cuore della seconda guerra mondiale, ad insegnare l’italiano ai poveri ragazzi croati di Selenico, nell’allora Jugoslavia. Qui, ad un certo punto, erano arrivate le truppe tedesche e non si sa bene perché avevano caricato su un treno merci tutti i maestri italiani e li  avevano portati a Wachendorf ai confini con l’Olanda in un campo di concentramento. Con mio padre c’era anche mio fratello, Giovanni Ugolini.

Ecco, la figura di Giovanni è stata determinante per le mie sorti politiche. Lui, quando mio padre era partito per Selenico, era stato messo in un collegio a Remedello, mentre io stavo con mia madre e mia sorella Rosa, invece,era ospite di un altro collegio di suore a Lonato. Ad un certo punto Giovanni, eravamo all’inizio di settembre del 1943, era scappato da Remedello, tenendo in mano solo il violino. Aveva raggiunto Trieste e poi era riuscito a passare il confine e a percorrere la costa, un po’ a piedi, un po’ a cavallo, tra bande di partigiani e d’ustascia, per andare ad abbracciare l’assai stupito papà Gherardo. I tedeschi li avevano beccati insieme. Non era stata  una lunga prigionia. I due presto, forse per l’intervento della Casa Editrice La scuola, erano stati fatti tornare a  Brescia. Oltretutto avevano avuto la fortuna di un trasferimento dal campo di concentramento ad una fattoria agricola. Una mattina erano, infatti, venuti i contadini tedeschi a cercare mano d’opera. Avevano scelto mio fratello, ma non mio padre e allora Giovannino si era esibito in una scena straziante, fatta di lacrime e grida isteriche. I contadini avevano finito col prendere tutti e due. Nella fattoria mio fratello faceva i lavori dei campi e mio padre guardava i vitelli e trovava anche il tempo per fidanzarsi con la maestra del villaggio, masticando il poco tedesco che ricordava.

Il ritorno di mio fratello, con quel suo nuovo nome, datogli dall’amico prigioniero russo: <Ivan>, segnò la mia collocazione politica. Mi spiegò in poche parole che cosa era il comunismo: una sorta di liberazione. Il venticinque aprile, oltretutto, era venuto a trovarmi dove abitavo con mamma al quartiere Littorio, oggi Leonessa. Era vestito di grigioverde, un grande fazzoletto verde al collo, un mitra a tracolla. Eravamo andati in campagna, alle spalle del quartiere, dove c’era una cascina e Ivan mi aveva fatto sparare contro un muro. E poi per anni ogni volta che passando guardavo quei buchi, sentivo una strana emozione, come il ricordo della mia riscossa personale.

QUANDO IL GERARCA OCCUPA LA CASA

Quanti si ricordano che cosa è stata la guerra a Brescia? Io ero bambino ma mi sono rimaste nitide alcune immagini.  Quella di Pippo, ad esempio. Era il nomignolo dato ad un pilota americano che, soprattutto di notte, sorvolava le città italiane. La gente sentiva quel motore in alto, guardava quella lucina che di notte tremolava nel cielo e gridava <Arriva Pippo!>. Era un grido d’allarme. Pippo, credo, era un ricognitore, veniva ad esplorare e dopo di lui si facevano vivi i minacciosi bombardieri, con il loro carico mortale.   Gli americani, a quell’epoca, non erano certo visti, almeno dalla maggioranza di coloro che mi stavamo intorno, come dei barbari assassini, anche se le loro bombe colpivano sovente obiettivi umani inconsapevoli. Erano i <liberatori>, come furono chiamati più tardi. Erano quelli che ci aiutavano a cacciare tedeschi e fascisti. Quindi benedetti, anche se la loro ingerenza costava lacrime e sangue.

                 La comparsa di Pippo dava luogo alla fuga. Gli abitanti del quartiere Leonessa dove abitavo e che in quei giorni si chiamava <Littorio>  si riversavano nei campi, sperando di trovare spazi protetti tra boschi e boschetti. Oppure si asserragliavano nelle cantine, trasformate in rifugi. Era diversa la via di fuga quando andavo a trovare mio padre, reduce dal campo nazista, prima della fine della guerra. Abitava  nella vecchia casa del defunto nonno, sotto il Castello, in Via Gabriele Rosa. Qui  la meta più vicina, per ripararsi, era quella che oggi è la moderna galleria che passa attraverso la città, proprio sotto il Cidneo. All’epoca mi appariva come una mastodontica caverna buia, nella quale si penetrava attraverso apposite porticine, una specie di città sotterranea, abitata da centinaia di bresciani impauriti. Stavamo lì  per delle ore, nell’attesa della sirena che dava il cessato pericolo. Quel lugubre suono dava il via anche alla mesta passeggiata per vedere i risultati dei bombardamenti, le case spaccate, i crateri nelle strade. Ogni tanto appariva anche la presenza di corpi inanimati. Un pellegrinaggio doloroso. C’era chi raccontava i reciproci lutti, spesso contrassegnati da atroci dolori. meste scene di disperazione. Un giorno circolò la notizia che Vittorino Chizzolini, il grande organizzatore dell’editoria scolastica de <La scuola>, buon amico di mio padre Gherardo,  una specie d’apostolo laico, aveva perso l’intera famiglia. Corremmo a vedere quel luogo di morte.

I bambini passavano,  disinvolti, attraverso le tristi esperienze belliche. E magari andavano a giocare, come capitò a me, nei giardini del quartiere dove c’erano alcune case occupate dai tedeschi. I soldati passavano buona parte del loro tempo sulle panchine e insegnavano i loro diversi giochi. Quando se n’andarono la gente del circondario, soprattutto contadini, si precipitò con carri e furgoni. Le case furono invase e svaligiate di mobili e suppellettili. Non avevo mai visto una folla così scatenata che arraffava ogni cosa, facendo precipitare dalle finestre armadi, letti, tavoli. Un vero saccheggio. Doveva essere l’otto settembre. Ho presente l’immagine nitida di me che a piedi vado dal fornaio della Volta Bresciana a comprare il pane e lungo la strada c’è una lunga fila ferma di soldati italiani. Ed io che in modo quasi impercettibile, con un misto di spavalderia e allegria,  zufolo il motivo che mi aveva insegnato mio fratello Ivan anche lui appena reduce dalla Germania: <Fischia il vento, romba la bufera…>.

Allora vivevo con mia madre, già separata da mio padre, emigrato in Jugoslavia ad occuparsi delle scuole italiane di Sebenico, prima di essere deportato in Germania. Il tribunale non  mi aveva assegnato al babbo perché ero il più piccolo. Un’infanzia non facile con lei, rampolla della famiglia Bonfiglio. Aveva nel Dna l’autoritarismo un po’ greve di certi commercianti bresciani. Era una bella donna, sola, dalla carriera di cantante mancata e forse questo pesava sulla sua personalità, rendendola irascibile, spesso furiosa, sempre intenta ad odiare Gherardo. Quando la sera rimanevo a giocare per le strade del Littorio e tardavo a tornare, faceva sentire il suo impetuoso richiamo nella notte ed io accorrevo già piangendo perché sapevo che  mi avrebbe atteso con un nodoso bastone dietro la porta. Dovevano essere i precetti dei bresciani dell’epoca. Tutto il contrario della mansueta tenerezza di mio padre, essendo gli <alimenti> previsti dalla separazione legale esiliati anche loro in Germania.

Eravamo poveri, molto poveri, senza più i sussidi paterni. Un giorno l’appartamento fu occupato da un gerarca fascista. Non so per quali ragioni specifiche. Forse l’abitazione  era considerata troppo grande, dalle autorità del momento, per una donna con un figlio solo. Qualcosa del genere era accaduto per la casa dove si trovavano ancora tutte le cose di mio nonno Ugolino, morto nel 1942, in Via Gabriele Rosa: qui, tra i resti botanici del professore di scienze naturali, si era insediato  un intero comando tedesco. Fatto sta che io e mia madre andammo ad abitare in cantina, lasciando le stanze del Littorio. Siamo rimasti sistemati per un non breve periodo in un minuscolo locale buio dove c’era un fornello, per mangiare. Qui, spesso rimanevo solo. Il mio piatto preferito e obbligato era il riso con un po’ di latte. Sopra il piatto, alla fine, ponevo una foglia d’insalata verde: un tocco d’eleganza.  Spesso trascorrevamo le giornate nei campi, d’inverno a raccogliere cortecce di legno per rifornire la stufetta, d’estate a racimolare le spighe rimaste nei campi. Poi le portavamo ai mulini. I panini bianchi erano una vera e propria ambita leccornia, un sogno per il palato. Così diversi dall’orribile pane nero (oggi ricercatissimo) o da  quella polenta che mia madre mi propinava condita con il dado, per carestia di sale. Un gusto orribile.

 Non so come riuscii a frequentare le scuole elementari. So che imparai subito a leggere e a quattro-cinque anni mi divorai tutto quello che trovavo ancora in casa. Poco,   perché spesso mia madre per far soldi vendeva alle apposite bancherelle i volumi più preziosi. Andavo così, comunque, dalle pagine de <I promessi Sposi> a quelle dei <Miserabili> e dei <Fratelli Karamazov>.  La guerra finì e al posto dei tedeschi arrivarono gli americani, in un’atmosfera da trionfo come quelle che spesso si vedono nei documentari d’epoca. Con relativa distribuzione di cioccolata. Al villaggio Ferrari, la sera dopo il 25 aprile, mi sono imbattuto per la prima volta nei comunisti. Le strade erano tutte imbandierate di rosso, erano diventati tutti antifascisti. C’era una grande, improvvisata Sezione del Pci e mia madre cantò persino in un concerto  le arie preferite della Boheme e di madama Butterfly. Il capo della Sezione era proprio lui Bruno Sclavo, anni dopo ritrovato alla guida della Federazione del Pci, col suo nome di battaglia <il compagno Gim>. Ero piccolo, mi addormentai su una panca e lui, Gim, finì col portarmi a dormire a casa sua. Come dire, i comunisti non mangiavano gli infanti. Avevano altri difetti.

Seguirà....

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